AAA vendesi Mercedes limousine del 1994, full optional, unico proprietario. Un affare? Non proprio, a giudicare dal prezzo: 1,3 milioni di euro, richiesti dal concessionario russo Sergei Urov. Ma a ben vedere il valore apparentemente spropositato per questa vettura è dato dal nome che compare sulla carta di circolazione. Si tratta infatti di Vladimir Putin, allora in procinto di diventare primo ministro.
La macchina – una W140 Pullman – in ottimo stato di conservazione, è apparsa in vendita sul sito tedesco mobile.de, specializzato in compravendita di veicoli. Nessun dubbio sull’autenticità e la paternità dell’auto. Che peraltro è stata usata pochissimo, come testimoniano i 25mila chilometri percorsi.
Al di là del valore storico dell’auto, la W140 Pullman in questione è un modello molto ricercato. Costruito appositamente con criteri di blindatura molto severi (B6-B7), ha un passo più lungo di un metro rispetto alla versione – già piuttosto dotata in questo senso – SEL. Montava un motore V12 da 6 litri capace di erogare una potenza di 394 cavalli. Non un’esagerazione, se teniamo in considerazione il fatto che il propulsore non fosse un turbo ma un normale aspirato. E soprattutto che doveva movimentare una specie di carrarmato (dal peso stimato di almeno 4.500 chili) su quattro ruote.
Gli interni si addicono al lusso e alle dotazioni richieste da una berlina “di Stato”: sei posti costituiti da altrettante poltrone in pelle collocate frontalmente, in modo da creare l’effetto-salotto. Al centro, nel tunnel che separa i posti, compare una consolle con copertura a scorrimento.
Unico inconveniente? In Italia una vettura del genere avrebbe qualche difficoltà con le normative anti inquinamento: il suo motore è infatti omologato Euro1. In alcune Regioni italiane potrebbe però già essere riconosciuta come storica, non pagare il bollo e circolare tranquillamente.
Comincia con questo numero la nostra iniziativa “Copertina d’autore”, che ci accompagnerà durante tutto il trentennale di Ruoteclassiche. Ogni mese del 2017, infatti, la rivista ospiterà un disegno realizzato in esclusiva per noi da un celebre car designer, sviluppando in modo personale il tema dei trent’anni della testata. Il primo dei 12 che sia alterneranno sulla scena è Aldo Brovarone, decano degli stilisti italiani, nonché padre – tra molti altri modelli – di due icone automobilistiche come la Dino Berlinetta Speciale del 1965 e la Ferrari F40 del 1987.
Le prossime copertine collezionabili (e staccabili) saranno firmate, in rigoroso ordine alfabetico, da Chris Bangle, Walter De Silva, Leonardo Fioravanti, Marcello Gandini, Roberto Giolito, Giorgetto Giugiaro, Flavio Manzoni, Paolo Martin, Lorenzo Ramaciotti, Ercole Spada e Tom Tjaarda.
Novant’anni portati meravigliosamente, una mente lucidissima e una modestia sorprendente, Brovarone ci ha concesso nell’occasione la lunga intervista che compare su Ruoteclassiche di gennaio, nella quale rivista alcuni espisodi della sua vita professionale, ma soprattutto lo spirito che sta alla base delle sue scelte stilistiche nel disegnare le linee di tante splendide automobili.
Stiamo parlando de “La tela di Giuliano”, diretto da Alessandro Amante e realizzato dalla casa di produzione bolognese LUIS.it. per GulfBlue.it, che racconta l’incredibile storia di una delle poche decine di pezzi esistenti dell’ultimo modello prodotto dalla Bizzarrini (sebbene non a livello di serie): la 1900 GT Europa.
Forse fu proprio a causa di questo impegnativo e costoso progetto che la breve vita della Bizzarrini – nata a Livorno nel 1964 per volontà di Giotto Bizzarrini, papà della Ferrari 250 GTO, e chiusa nel 1969 – ebbe fine. Ma di sicuro la 1900 GT Europa è alla base della storia di Giuliano Giunta, un artigiano bolognese con la passione per l’auto che nel 1970 decide di acquistare all’asta fallimentare, dove vennero svendute le ultime vestigia della Bizzarrini, un telaio e una scocca della 1900 GT Europa. Da lì inizia il racconto di una vita trascorsa a costruire integralmente una vettura in ogni minimo dettaglio: Giunta si è occupato di realizzare motore, trasmissione, sospensioni, dettagli, finiture, pomelli, perfino i vetri.
Un piccolo grande capolavoro di artigianato e di passione per le quattro ruote. Ma anche una bella storia di vita: nel corso di 45 anni il rapporto tra Giunta e la sua Bizzarrini. Di fatto Giunta è riuscito, nel corso di questo lungo percorso, a portare a termine in maniera impeccabile il progetto concepito dall’ingegnere livornese.
Un racconto che tiene incollati allo schermo, grazie a una narrazione efficace ed emozionante. E un documentario dal finale aperto: Giunta dice di voler vendere la sua creatura, ma ogni volta che gli amici lo vanno a trovare in officina, lui è sempre lì che la smonta, la aggiusta, la modifica. Come nell’Odissea Penelope tesseva a disfaceva la sua tela per tenere lontani i Proci, così oggi l’artigiano bolognese tesse e disfa la sua tela fatta di carrozzeria, bulloni e ingranaggi. Per tenere lontani i potenziali acquirenti di un oggetto dal valore inestimabile.
Nel mondo del collezionismo di automobili, termini come “prima”, “ultima”, “unica” e “originale” sono fondamentali per la definizione del valore collezionistico e, in termini più pratici, economico. E se il caso vuole che tutti e quattro i concetti si riferiscano alla stessa automobile, allora la sua quotazione può prendere una piega imprevedibile, giacché il valore dipende da quanto il collezionista sia disposto a spendere per entrarne in possesso.
E’ “quasi” il caso dell’esemplare che RM Soteby’s metterà all’incanto il prossimo 8 febbraio a Parigi nei giorni di Retromobile. Si tratta di una 911 molto speciale e particolare, costruita nel ’64: è il prototipo della 911 Cabriolet realizzato dalla Karmann nel ’64, l’unico costruito e secondo più antico tra le Neunelfer giunte ai giorni nostri.
NIENTE CABRIO!
Al Salone di Francoforte del ’63 Porsche aveva introdotto la 911, l’erede della 356: nuovo telaio, nuovo motore boxer di 2 litri con frazionamento 6 cilindri per 130 CV ma, soprattutto, un design inedito opera di Ferdinand Alexander “Butzi” Porsche. La 356 C/SC rimaneva ancora in produzione e, naturalmente, anche in versione cabriolet.
Ecco il punto: la Porsche 911 era un’affascinante coupé ma mancava la versione scoperta per i climi temperati. La 356, ancora in produzione nel ’65 ma con risultati di vendita esigui rispetto alla nuova 911 (un rapporto di 1 a 20) era l’unica cabriolet della Casa di Stoccarda a listino.
Pressato dalle richieste, il management Porsche corse ai ripari. Su uno dei prototipi della 901, con telaio 13360, la Carrozzeria Karmann allestì velocemente un cabriolet, segando via il tetto e operando gli opportuni rinforzi sulla scocca.
PROBLEMI! E COSI’ NACQUE LA 911 TARGA
Apparentemente sembrava fatta: la nuova Porsche 911 poteva contare sulla disponibilità di un cabriolet, versione più raffinata ed esclusiva. In realtà, essendo stata progettata solo come versione chiusa, in sede di verifica da parte dei reparti tecnici palesò numerosi problemi, per i quali una soluzione appariva lontana (nel tempo) e pesante (nei costi). Non volendo rinunciare alla Cabrio, Porsche prese una decisione di ripiego: installò un grande rollbar ad arco subito dietro il taglio della portiera. A chiudere l’abitacolo e a proteggere adeguatamente da vento e acqua ci pensava un tetto rigido ripiegabile e un lunotto in tela staccabile: era nata la 911 Targa, presentata nel ’67 e destinata a diventare un modello iconico della produzione.
ALL’INCANTO Nel 1967 il prototipo della 911 Cabriolet fu venduto al pilota e collezionista Manfred Freisinger di Karlsruhe, presso il quale rimase fino al 2001 quando Myron Vernis un cacciatore di vetture molto rare e speciali riuscì ad averla permutandola con una rara 356 B Carrera GS.
Eccetto per l’installazione di un motore 2 litri nuovo (con punzonatura molto “antica”), Vernis lasciò questo esemplare nelle condizioni in cui si trovava per cercare di rispettarne il più possibile l’originalità. Utilizzata con cura, talvolta portata a qualche evento, la 911 Cabriolet Prototipo rimase in suo possesso fino al 2014, anno in cui fu ceduta al suo attuale proprietario.
Questi ha deciso, infine, di metterla all’asta: l’esemplare possiede ancora vernice (rosso Signal) e interni originali ad esclusione, forse, dei sedili. Trattandosi di un prototipo possiede una serie di particolari posticci e non definitivi, tipici di una vettura sperimentale.
Tra le 160 vetture che saranno messe all’asta nel maxi evento programmato in Arizona da RM Sotheby’s per il prossimo 19-20 gennaio c’è anche la Ferrari Enzo di Tommy Hilfiger. Prodotta nel maggio 2003, la vettura è l’ultima delle 399 prodotte a cui, in seguito, fu aggiunta la numero 400 donata a Papa Giovanni Paolo II. Praticamente in condizioni pari al nuovo, l’auto (lotto 151), uniproprietario, ha percorso solo 3.620 miglia (5.825 km), è stata recentemente tagliandata, monta pneumatici nuovi e viene valutata tra i 2,7 e i 3 milioni di dollari, al cambio tra 2,6 e i 2,88 milioni di euro.
Il noto stilista, che all’epoca era sponsor della Scuderia di Maranello e aveva anche disegnato le tute dei piloti di F1 tra cui c’era Michael Schumacher, è un appassionato di motori: nel suo garage sfoggia diversi modelli esclusivi ed è un grande estimatore delle Ferrari. “Amo molto anche la 458 Speciale, la California, le vecchie Daytona e LaFerrari”, ha dichiarato recentemente in un’intervista pubblicata sul sito della stessa RM Sotheby’s, puntualizzando: “Il mio stile di vita sta cambiando. Non guido più auto veloci come facevo una volta. Piuttosto, in questo periodo, preferisco guidare la mia Rolls-Royce Dawn o la mia Maybach”.
La Enzo di Hilfiger non sarà la vettura del Cavallino rampante con quotazione più elevata proposta nel maxi evento statunitense: fra le 21 Rosse che saranno messe all’incanto a Phoenix da segnalare una F50 del 1995 (lotto 227) valutata tra i 3 e i 3,5 milioni di dollari, una 365 GTS by Pininfarina del 1969 (lotto 263) stimata tra i 2,9 e i 3,5 milioni di dollari e una splendida 400 Superamerica SWB Coupé Aerodinamico del 1961 (lotto 231), sempre carrozzata Pininfarina, quotata tra 3,25 e i 3,85 milioni di dollari.
Se il futurismo è stato il movimento artistico e letterario a cui più facilmente si associa l’automobile è anche vero che quest’ultima ha attraversato a gran velocità tantissime pagine di letteratura italiana del Novecento. È stata una rivoluzione nella tecnica e nella vita quotidiana, lo è stata anche nella lingua, nei romanzi, nella poesia. Basti pensare che all’inizio di questa storia il termine automobile era usato al maschile, ed era un aggettivo.
Intorno al 1890 la parola automobile comincia a diventare un sostantivo, ma viene usato sempre al maschile anche da Filippo Tommaso Marinetti nel suo Manifesto del futurismo del 1909 ( lì la definizione di automobile è addirittura quella di un’opera d’arte “che supera la bellezza della Vittoria di Samotracia”). Sempre al maschile questo termine viene usato da Guido Gozzano nella poesia “Totò Merumeni”.
La parola però è ambigua. È Gabriele D’Annunzio a prendere posizione e a scrivere in una lettera a Giovanni Agnelli: “L’Automobile ( in maiuscolo, ndg) è femminile. Questa ha la grazia, la snellezza, la vivacità d’una seduttrice; ha, inoltre, una virtù ignota alle donne: la perfetta obbedienza. Ma, per contro, delle donne ha la disinvolta levità nel superare ogni scabrezza.” Alla fine l’ebbe vinta D’Annunzio. E prevalse il femminile, quasi ad anticipare quello che sarebbe stato per le donne il secolo della presa di coscienza e della contestazione del sistema.
Fino al 1950 in Europa le automobili erano ancora un lusso mentre l’America già nel 1908 aveva realizzato la prima macchina “popolare”, la Ford-T. Negli Stati Uniti, alla fine del terzo decennio del Novecento, c’era un’auto ogni quattro abitanti. In Italia una ogni cento. Il metodo produttivo statunitense nato per l’auto di massa, cioè la segmentazione delle mansioni, verrà esportato a tutti gli altri settori produttivi.
È Antonio Gramsci che nei suoi Quaderni dal carcere ( il primo si intitola Americanismo e fordismo) evidenzia l’accesso ai consumi automobilistici dei ceti subalterni, raccontato anche nell’autobiografia di Henry Ford. D’altro canto, una scrittrice francese, Simon Weil, decide di farsi assumere nel 1935 nelle officine della Renault per meglio comprendere la condizione operaia e denunciare in seguito la trasformazione dei lavoratori in “una struttura atomica delle fabbriche”. Un’espressione che rappresenta l’anteprima del diffondersi in letteratura della «tecnologia metaforizzata», vale a dire delle metafore tratte dal mondo moderno.
Nel 1927 sbarcano insieme in Europa le due case automobilistiche statunitensi (Ford e General Motors) e la comunicazione pubblicitaria. La narrativa americana rende le auto metafore dei ceti sociali ed emblema di aspetti psicologici: sono gli anni in cui a scrivere sono Fitzgerald, Steinbeck, Kerouac. Fitzgerald ne Il grande Gatsby, uscito nel 1925, rende l’auto di lusso allo stesso tempo simbolo del successo di Gatsby e immagine portatrice di morte. John Steinbeck nel suo libro Furore rappresenta in forme automobilistiche l’esodo delle famiglie contadine verso la California dopo la crisi del ’29 . On the Road (Sulla strada) è il romanzo di Kerouac del 1957 che racconta la mobilità motorizzata e le auto segnate dagli incidenti. In quegli stessi anni Cinquanta il poeta Wallace Stevens, racconta lo svanire di tutto nel transito in auto.
E poi c’è Dino Buzzati, scrittore e cronista al “Corriere della Sera”. L’automobile è il tema dominante di diversi racconti di Buzzati, legati al tema della città “nevrotica”. Nel racconto “Suicidio al parco” l’autore narra la storia di una coppia, Stefano e Faustina, e dell’insorgere di una terribile malattia in Stefano, quella di voler possedere un’automobile d’élite. Stefano ossessiona tanto Faustina con le foto pubblicitarie delle case automobilistiche che la moglie, esausta, una notte, tra le braccia del marito si trasforma in un’autovettura sul marciapiede davanti a casa, per realizzare i sogni di Stefano. L’auto-persona, però poi si ribella e reagisce, mettendosi in moto da sola, correndo e distruggendosi in un paesaggio che ricorda fin troppo la città di Milano.
Insomma all’omaggio incondizionato contenuto nel 1905 in “Ode all’automobile da corsa” di Marinetti e in “La nuova arma ( la macchina)” dello stesso anno di Mario Morasso, scrittore in un certo senso anticipatore del futurismo, fa da contrasto la visione pessimistica, decenni dopo, di Buzzati, che vede nell’auto un simbolo di ricchezza che in un attimo rivela la miseria umana.
A metà strada tra disegno e narrativa, c’è un genere grafico-letterario in cui l’automobile vuole ostinatamente il suo ruolo. Parliamo del fumetto e della Fiat 500 di Lupin III, ladro gentiluomo che però ha anche una Mercedes SSK e che guida occasionalmente anche una Ferrari. Troviamo altri personaggi del fumetto alla guida di Alfa Romeo, Jaguar e BMW. Insomma la letteratura, nelle sue varie forme, ha preso la patente, l’ha rinnovata più volte e, a distanza di un secolo, guida ancora. Anche su lunghe distanze.
Guardare al futuro con un occhio rivolto al passato è uno slogan che molte Case automobilistiche usano (e abusano) di questi tempi. Ma lo stesso slogan è diventato realtà grazie a Volkswagen. Che, al Salone di Detroit, ha presentato l’ I.D. Buzz, versione futurista e ad alimentazione elettrica del mitico Bulli. Una rivisitazione in chiave moderna del pulmino che ha segnato, mai come nessun’altra vettura, un periodo storico come la rivoluzione giovanile del ’68.
Dal furgone originale l’I.D. Buzz riprende le forme simpatiche e tondeggianti, mentre dal Centro ricerca e sviluppo di Wolfsburg arriva la nuova piattaforma Meb su cui lo stesso I.D. Buzz si sviluppa: ha due motori elettrici, uno per asse, che erogano un totale di 374 Cv e li trasmettono alle quattro ruote. L’autonomia prevista è di 270 miglia, più di 430 km.
Il concept di van elettrico di Volkswagen non è una novità assoluta. Nelle scorse occasioni però all’annuncio iniziale non era seguito altro: così è stato nel 2002 con il progetto Microbus, nel 2011 con il Bulli e lo scorso anno con la concept car Budd-e. Stavolta però l’I.D. Buzz sembra nascere col piede giusto: potrebbe vedere la luce entro il 2022 ed è destinato forse a rinverdire i fasti di un’epoca d’oro, un’epoca epica (scusate il gioco di parole) dove la mobilità su quattro ruote faceva rima con libertà e liberazione giovanile.
In epoca di flower power, il Bulli era il veicolo-icona, il mezzo ideale per far circolare le idee dirompenti della gioventù statunitense che si diffusero a macchia d’olio nel resto del mondo. E se nel 1968 lo slogan era pacifista ed ecologista, il discorso non cambia oggi, soprattutto alla luce del Dieselgate: il nuovo Bulli è un mezzo concettualmente “sessantottino” che, invece di “mettere fiori nei vostri cannoni”, mette elettricità nel motore senza bruciare benzina.
Per Volkswagen la rinascita del Bulli (questo era il soprannome che si conquistò il Transporter Typ 2) rappresenta un gradito ritorno di un modello andato in pensione alla fine del 2013 dopo 56 anni di onorata carriera.
L’ultima serie del pulmino VW è uscito alla fine del 2013 dalle catene di montaggio brasiliane. Allora il Bulli (che nel paese sudamericano veniva prodotto col nome di Kombi Last Edition) è stato obbligato ad andare in pensione dalla normativa brasiliana che impone a tutti i veicoli nuovi di essere dotati di ABS e di almeno due airbag frontali. Una modifica difficile da mettere in pratica su un progetto vecchio di mezzo secolo. Adesso si prospetta la rinascita. Con la svolta elettrica.
Qui invece si possono vedere tutte le 10 puntate della web series di Ruoteclassiche dedicata al restauro di un Bulli con Enrico Brignano.
Dagli Stati Uniti arriva una storia che tocca il cuore e la passione di chi ama le auto classiche. Anche perché, per la prima volta, siamo di fronte a un hangar find. Eravamo abituati ai barn find, i fienili che nascondevano tesori a quattro ruote, ritrovati spesso in stato di abbandono ma il cui valore storico ed economico era ingente. Adesso, dalla cittadina di Svensen, sulla costa dell’Oregon, arriva il primo ritrovamento all’interno di un hangar.
Qui Wally Nygren ha riscoperto una parte del suo passato. Nel 2016, dopo la morte della madre Rosalie, ha fatto ordine nella sua vita. E ha aperto quell’hangar abbandonato dove suo padre Sygurd – scomparso nel 2013 – conservava tre piccoli aerei da turismo.
La passione di Sygurd per il volo si spiega bene: l’uomo, di origini scandinave, era cresciuto nell’orfanotrofio della cittadina americana. A 18 anni si è arruolato nella marina mercantile e ha preso il brevetto da pilota. Ha combattuto la seconda guerra mondiale e servito la patria anche dopo il conflitto restando in Marina e mettendo su famiglia nella città dove era cresciuto, sulla West coast. Quindi ha sempre coltivato la passione per il volo anche nel tempo libero. E ben presto si innamorò di una vettura che vide nell’autosalone di Max Hoffman, sul Sunset Boulevard di Los Angeles.
Era il 1955 e Sygurd Nygen, affascinato dal mondo dell’aviazione, vuole a tutti i costi comprare quella bellissima Mercedes 300 SL Gullwing: le sue portiere ad apertura verticale, quel look filante e le sue prestazioni la rendevano ai suoi occhi una sorta di aeroplano su quattro ruote. A dire il vero avrebbe voluto il modello con scocca in alluminio, ma andava ordinato direttamente in Germania e lui non voleva aspettare tutto quel tempo.
Così mise mano al portafogli e comprò l’esemplare che era in vetrina. Il modello era stato fatto fare con le specifiche richieste da Hoffman, il concessionario che con le sue intuizioni è stato il padre di questa vettura: vernice rosso fuoco (più specificatamente, il DB534 Feuerwehr Rot) e una sgargiante tappezzeria originale con fantasia plaid. L’auto, con strumentazione inglese, è uscita dalle catene di montaggio il 23 febbraio di quell’anno ed è finita tra le sapienti mani di Sygurd Nygen. Che la usò molto poco: appena 31.239 miglia percorse (50.274 km) in 20 anni di vita.
Negli anni ’60, Nygen vi montò anche un’autoradio a cassette con impianto di diffusione a sei casse, preso da una berlina 300d Adenauer. Dopo il 1976, forse per un problema meccanico alla pompa dell’olio, Nygen non rinnovò la targa e parcheggiò l’auto, così com’era, nell’hangar dove custodiva gli aerei. Non prima, però, di averla coperta col telone Mercedes e con dei teli antiacqua, per prevenire gli eventuali danni che avrebbe potuto provocare l’umidità.
L’auto è stata congelata nel tempo per 40 anni, fino a quando il figlio Wally l’ha scoperta in quel deposito di Svensen, Oregon, esattamente come suo padre l’aveva lasciata. Come una capsula del tempo, al suo interno sono stati ritrovati i tagliandi ufficiali fatti fare dal concessionario Mercedes Rasmussen, gli attrezzi per la manutenzione originali, i manuali e i libretti d’epoca e anche una copia del 1961 di The Star, a tetsimonianza del fatto che Nygen era membro del Mercedes-Benz Club of America.
Adesso, la casa d’aste Gooding & Company, contattata dal figlio di Nygen per una valutazione, ha tra le mani un oggetto più unico che raro (verrà battuto il 20 gennaio con una stima che varia da 900.000 a 1,1 milioni di dollari).E un nuovo paradigma che definisce il concetto di “auto conservata”.
Il 30 è d’obbligo quest’anno. Come ormai in molti sapranno nel 2017 si celebra il 30° anniversario della nascita di Ruoteclassiche. Un numero magico il 30 che ricorrerà spesso nei nostri articoli e nelle nostre iniziative. In questo caso, si tratta dei 30 appuntamenti più importanti dell’anno secondo il nostro “sindacabile” giudizio, che nell’agenda ideale dell’appassionato di auto storiche dovrebbero essere segnati in rosso. Oppure, parafrasando una nota guida gastronomica, quelli per cui: “l’evento vale il viaggio”.
Un’agenda ideale, ovviamente, che vuole solo suggerire qualche idea di svago con la certezza di non rimanere delusi. Si comincia tra pochi giorni con la gara più “fredda” dell’anno, che di fatto apre anche il ricco programma di competizioni per auto d’epoca, e si finisce a fine novembre con Milano AutoClassica, la mostra scambio che chiuderà il calendario dei grandi eventi.
Come si può notare qui sotto, il mese più ricco di iniziative “imperdibili” è settembre, con diversi eventi internazionali in calendario ogni fine settimana, alcuni addirittura in sovrapposizione.
Da sempre Ferrari lega il valore dei suoi prodotti alle qualità dei motori. E’ stata del resto, la qualifica principale del suo successo negli esordi dell’attività. Successo dovuto al famoso 12 cilindri progettato da Gioacchino Colombo. Lo troviamo nella capostipite, la 125 S di 1.500 cc, e in tutte le sue successive evoluzioni, il tipo 166 portato a 2 litri e il Tipo 212 ri-configurato a 2.544 cc. Ma l’incoronazione ufficiale della creazione del tecnico milanese avviene con il tipo 250 di 3 litri, utilizzato sulle vetture stradali come sui modelli da corsa per quindici anni.
Paradossalmente, la carriera di Colombo in Ferrari non fu lunga come la vita del suo motore sulle vetture di produzione: questi, infatti passò all’Alfa Romeo nel 1950 a causa di alcuni limiti tecnici della sua creazione e dell’ascesa di uno dei suoi stessi collaboratori: Aurelio Lampredi. E mentre il V12 Colombo mieteva successi con i modelli Sport e GT, lo stesso non avveniva con le monoposto. In Formula 1, infatti, il dominio era proprio dell’Alfa Romeo, grazie al motore 8 cilindri di 1,5 litri e compressore che lui stesso aveva progettato alla fine degli Anni 30 per la 158 e poi riutilizzato sulla 159. Questo motore si era dimostrato certamente competitivo ma al prezzo di un grande impegno nella manutenzione visti gli altissimi regimi raggiunti, con inevitabili conseguenze in termini di affidabilità.
LA REGOLA LAMPREDI
L’approccio di Aurelio Lampredi fu diverso: aumentare la cilindratasenza bisogno della sovralimentazione. Iniziata nel ’49, la progettazione di questa nuova tipologia di motore diede origine a una unità – per dirla in termini americani – “long block”, laddove il motore Colombo si configurava come uno “short block”. L’immediato successo che ottenne questo nuovo motore convinse Ferrari a interrompere lo sviluppo del V12 Colombo e si risolse con l’uscita del tecnico legnanese da Maranello. Un trentenne Aurelio Lampredi, così, si vide promosso a capo degli ingegneri Ferrari. Per i cinque anni seguenti il V12 Lampredi in varie configurazioni (3, 4,1, 4,5 o 5 litri) fu utilizzato in F1 e nelle gare Sport con grande successo (tra questi la leggendaria vittoria della 375 F1 a Silverstone ’51 e il successo di Gonzalez/Trintignant a Le Mans ’54).
340 AMERICA: ALLA CONQUISTA DEGLI STATES Alla Mille Miglia del 1950 si erano presentate due Ferrari 275 S, dotate di una superba carrozzeria opera di Touring che nascondeva, sotto il cofano, un 12 cilindri Colombo sviluppato da Lampredi fino alla cilindrata di 3,3 litri. Luigi Villoresi e Alberto Ascari dovettero ritirarsi per noie alla trasmissione ma uno dei due esemplari, il telaio 0030MT, ebbe modo di riscattarsi giacché un furbo e scaltro Enzo Ferrari, intuendo il potenziale del motore Lampredi, lo fece aggiornare a 4,1 litri in vista del Salone di Parigi di settembre. Ribattezzata 340 America, la nuova vettura poteva essere un’ottima avversaria delle Allard e delle Chevrolet nelle gare dell’SCCA americano.
PARTE LA PRODUZIONE
L’edizione ’51 della Mille Miglia del 1951 fu il trampolino di lancio: la Ferrari 340 America s/n 082A, primo esemplare di produzione, si presentava con un affascinante vestito di Vignale. La coppia Villoresi/Cassani portò a Maranello il quarto successo consecutivo nella corsa bresciana e dimostrò l’enorme competitività del V12 Lampredi. Che si ripeté, in versione “340 Mexico” alla Carrera-Panamericana ’51 e come “340 MM” alla Mille Miglia del ’53. Ulteriori evoluzioni, la 375 MM e la 375 Plus da 5 litri vinsero, rispettivamente, a Spa e Pescara e alla massacrante 24 Ore di Le Mans.
Complessivamente la 340 America è stata prodotta in 22 esemplari, 8 dei quali in configurazione stradale e tre (dei 14 da corsa) in configurazione “Competizione” con caratteristiche tecniche superlative.
IL TELAIO 0196A: VETTURA UFFICIALE, SOLO RITIRI
L’avventura dell’esemplare di queste immagini, una delle “Competizione”, iniziò nel marzo ’52 con l’assemblaggio della trasmissione (da parte di Walter Sghedoni) e proseguì in aprile con la costruzione del motore (affidata a Amos Franchini). Questa vettura fu dotata di ammortizzatori a doppie barre di torsione, caratteristica che si ritiene non avessero gli altri due esemplari, e motore con carburatori maggiorati.
Successivamente la meccanica ricevette una carrozzeria Vignale (secondo di quattro esemplari barchetta, uno di dieci carrozzati dal battilastra torinese comprendendo anche 5 coupé e una cabriolet) sull’esempio della 212 Export con telaio 0076E. Il rolling chassis fu consegnato a Torino il 15 aprile 1952 e a fine mese fu pronto, giusto in tempo per la Mille Miglia (3 maggio) nella disponibilità di Piero Taruffi (vincitore della Carrera Panamericana del novembre ’51 una Ferrari 212 Inter) e Mario Vandelli. La 340 America ufficiale della Scuderia Ferrari, numero di gara 614, fu presto costretta al ritiro per rottura della trasmissione.
Riportata in fabbrica, fu migliorata con alcuni accorgimenti per aumentarne l’efficienza aerodinamica e potenziare il raffreddamento dei freni posteriori. Tre settimane dopo la ritroviamo al Grand Prix di Berna con al volante Willy-Peter Daetwyler ma anche in questo caso dovette abbandonare presto per rottura del Transaxle. Alla fine di maggio, con una nuova vernice blu dell’Ecurie Auvergne scese in pista a Le Mans (numero di gara 15) per la 24 Ore con Maurice Trintignant. Nuovamente fu costretta all’abbandono a causa della rottura della frizione dopo 6 ore di gara. Il 29 giugno del ’52, infine, Giovanni Bracco (che aveva vinto la Mille Miglia qualche settimana prima a bordo di una Ferrari 250 S) condusse la 0196A alla Targa Florio (numero 64). Ma il destino le remò contro ancora: rottura della trasmissione e ritiro.
IN MANI PRIVATE
La 340 America fu venduta al fiorentinoPiero Scotti. Questi i suoi risultati: secondo di classe al VII° Circuito Automobilistico di Senigallia, ritiro durante la XXI° Coppa Acerbo; partecipazione alla Maloja-St. Moritz; vittoria alla Coppa delle Colline Pistoiesi; vittoria alla Catania Etna; partecipazione al Gran Premio di Bari e vittoria alla XXII° Vermicino-Rocca di Papa. Tornata in fabbrica per alcuni aggiornamenti, corse ancora nel ’53 nelle mani di piloti privati, con un discreto successo.
Nel ’54 le viene donata una nuova identità: Vignale la riveste con una carrozzeria coupé, forse precedentemente montata su una Aston Martin DB3 S. Nel marzo del ’55 fu quindi venduta in America dove iniziò a passare di mano in mano tra collezionisti e appassionati ricevendo alcuni aggiornamenti (tra cui trasmissione Mercedes e freni a disco). Entrata in possesso (1999) del noto collezionista inglese Lord Bamford, fu riportata alle sue condizioni originarie con la costruzione di una nuova carrozzeria barchetta identica alla configurazione primigenia.
Dopo qualche ulteriore passaggio di proprietà oggi appartiene a un collezionista tedesco, che ha deciso di metterla all’incanto. Con una stima d’asta molto alta: dai 7,0 agli 8,4 milioni di euro. Un bel gruzzolo considerando che la carrozzeria non è quella originale. Oppure no?
Johnny Halliday vende un’auto e una moto. Ma la 73enne rockstar francese non deve fare cassa coi gioielli del suo garage. Dall’alto di oltre 100 milioni di dischi venduti e di una carriera durata mezzo secolo, Halliday non svende perle della propria collezione. Il motivo è decisamente nobile: il ricavato dei due pezzi che saranno messi all’incanto il prossimo 10 febbraio al Salon Retromobile di Parigi da Artcurial, servirà a finanziare l’associazione benefica La Bonne Etoile, animata dalla moglie di Halliday, Laeticia.
L’auto e la moto in vendita fanno parte a tutti gli effetti della storia musicale dell’Elvis transalpino. La prima è una Cadillac Series 62 cabriolet del 1953. Si tratta della stessa macchina che compare sulla cover di L’Attente, disco realizzato da Halliday del 2012. E che ha una storia molto particolare: infatti è una creazione di Boyd Coddington, il leggendario customizzatore americano a cui Halliday si rivolse per destrutturare e “preparare” a dovere questa Cadillac (alla Casa americana, sua autentica fissazione, Halliday aveva addirittura dedicato un disco eponimo nel 1989).
Spiccano le ampie zone cromate, un grosso motore V8 e la speciale verniciatura che Coddington realizzò sotto la guida del cantante francese. Il quale volle anche una speciale tappezzeria interna in pelle con le sue iniziali. L’auto – che ha una base d’asta di 50mila euro, ha anche un valore speciale perché è stata l’ultima a essere lavorata da Coddington prima della sua morte, avvenuta nel 2008.
Ad andare all’incanto è anche una Harley-Davidson 1340 Softail del 1990. Si tratta di un pezzo piuttosto inusuale nella produzione recente della Casa di Milwaukee: infatti ha all’anteriore la desueta forcella di tipo Springer, che ne aumenta il valore collezionistico. Il fatto poi di aver posato come modella sulla cover del singolo di Halliday Possible en Moto del 1989 ne aumenta anche il grado di appetibilità, soprattutto tra i suoi fan. In questo caso, la base d’asta è di 20mila euro.
La stagione delle gare riservate alle auto storiche inizia, come tradizione, con la neve, con le strade ghiacciate e con le insidie della notte. È la 29ma volta che succede, tante sono le edizioni della Winter Marathon che si sono tenute fino a oggi. Anche quest’anno la prima vettura prenderà il via alle 14.00 (di venerdì 20 gennaio) da Piazzale Brenta a Madonna di Campiglio e tornerà a Piazza Righi, sempre a Madonna di Campiglio, per le 2,30 di notte (di sabato 21 gennaio) dopo aver percorso alcune tra le più belle strade di montagna del Trentino Alto Adige: 440 chilometri e nove passi alpini da superare in 12 ore (clicca qui per il percorso) conditi con 51 prove cronometrate.
Una competizione impegnativa che ogni anno attira nella località dolomitica più di un centinaio di equipaggi decisi a tutto per contendersi il primo trofeo in palio dell’anno. Quest’anno sono 110 gli equipaggi al via, 24 dei quali composti dai Top Driver della specialità, e 13 addirittura su vetture anteguerra.
In totale sono 17 i marchi automobilistici presenti, con la Porsche in prima posizione (34 le vetture iscritte), seguita dalla Lancia e Fiat (17 vetture) e dall’Alfa Romeo (16 vetture). Tra i partecipanti anche Miki Biasion (equipaggio n° 51) a bordo di una Lancia Fulvia Coupé 1.3 safari del 1976. Sarà presente anche Ruoteclassiche con il direttore David Giudici e la navigatrice Laura Confalonieri, a bordo di una Volvo P121 del 1968 (n° di gara 87).
La Winter Marathon avrà un prologo giovedì 19 alle 20.15 sul lago ghiacciato di Madonna di Campiglio con il Trofeo APT, gara a eliminazione diretta riservata ai primi 32 equipaggi iscritti alla Winter Maraton. Mentre sabato, a partire dalle ore 13.00, sempre sul lago ghiacciato inizieranno le competizioni riservate alle vetture scoperte partecipanti alla gara (Trofeo Ma-Fra) e ai primi 32 equipaggi classificati. Questi ultimi si giocheranno il Trofeo Eberhard in una gara a eliminazione diretta. G.M.
Se ne è andato nel primo pomeriggio di oggi, dopo una vita trascorsa tra i motori, Mario Poltronieri, 87 anni, una delle voci più importanti del giornalismo televisivo sportivo italiano. Ha trascorso la maggior parte della sua carriera professionale alla RAI ed è conosciuto dall’esercito degli appassionati degli sport automobilistici soprattutto per il suo ruolo di commentatore e telecronista delle gare del Mondiale di Formula 1 fino alla metà degli Anni 90.
GLI INIZI: L’ABARTH E I RECORD La vita di Mario Poltronieri è stata da sempre legata ai motori. Nato a Milano il 23 novembre del 1929, figlio di un musicista, iniziò come tanti a cimentarsi con le motociclette e fu preso presto dal demone delle quattro ruote. Si iscrisse appena possibile alla Scuderia Sant’Ambroeus, cenacolo dei gentleman driver milanesi più noti del periodo e trampolino di lancio per le nuove speranze (vi militavano figure di spicco del motorismo come Elio Zagato, Giancarlo Baghetti, i fratelli Leto di Priolo).
La sua prima prova importante fu alla Mille Miglia 1954: si presentò alla partenza di Viale Venezia a Brescia con una Fiat 1100/103 ma fu costretto al ritiro. Lo rivediamo nel ’56 al volante di una Fiat 600 Zagato con il numero 39. Arriva 167° ma è terzo nella categoria fino a 750 cc. Carlo Abarth, uomo dotato di un fiuto speciale, lo nota e, dopo averlo messo alla prova, qualche settimana dopo gli mette a disposizione il volante di una delle sue vetture per un’impresa epica: nel mese di giugno con Umberto Maglioli, Remo Cattini e Alfonso Thiele, Poltronieri guida a Monza una Abarth da record con “motorino” 750, carrozzeria aerodinamica di Bertone e meno di 400 chili di peso stabilendo il record delle 24 ore. In un giorno a quasi 156 km/h di media, vengono percorsi oltre 3.700 chilometri tutti d’un fiato. E’ solo uno di oltre 100 record conquistati da Poltronieri con le vetture dello Scorpione.
Quell’impresa gli apre definitivamente le porte dell’azienda torinese. Lasciato il tranquillo lavoro a Milano si trasferisce a Torino dove il severo boss austriaco gli affida “una serie di ruoli”: impiegato tecnico, collaudatore e addetto stampa. Il giovane milanese svolge attivamente soprattutto quelle attività che qualsiasi appassionato sognerebbe di ricoprire: guida le vetture “aziendali” in corsa ed esegue test probatori su vetture di Casa ma anche sulle auto della concorrenza per “preparare” le Abarth stradali alla prova del mercato.
Lo troviamo così in gara sugli asfalti ripidi di importanti appuntamenti come la Stallavena – Boscochiesanuova e la Castell’Arquato – Vernasca o sul manto perfetto di Monza, impegnato con le piccole ma velenose coupé dello Scorpione con motore bialbero e carrozzeria Zagato. Fino a quando Carlo Abarth decide di conservare quel giovanotto per le attività in fabbrica, certamente meno divertenti ma molto più importanti. Egli, tuttavia, non la pensa così e inizia a meditare il ritorno a Milano.
1961: LA TELECRONACA DI UNA PARTITA DI BASEBALL
La decisione è infine presa e nel 1961 inizia a collaborare con la RAI come giornalista sportivo, settore al quale si è nel frattempo avvicinato. Gli venne affidata la trasmissione Ruote e Strade, una serie di lezioni di guida televisive. Nel 1964 avviene il suo debutto come commentatore. Ma non si tratta di gare automobilistiche quanto di partite di baseball.
Successivamente subentra a Piero Casucci – precedentemente responsabile per le competizioni automobilistiche – e gli viene affidato il commento delle gare di Formula 1 e motociclismo. l’Ex pilota-collaudatore, ormai affermato giornalista (assunto definitivamente in RAI a partire dal 1971), diventa la voce narrante nelle telecronache delle emozionanti lotte tra i protagonisti di quasi venticinque anni di competizioni (dal 1977 la RAI iniziò a seguire tutte le gare di Formula 1 del campionato). Dopo aver esordito nel ruolo “in solitudine”, negli anni diventa il capitano di piccola squadra insieme a Ezio Zermiani, Clay Regazzoni, Gianfranco Palazzoli.
Mario Poltronieri ha continuato a commentare la Formula 1fino alla fine del 1994, anno del suo pensionamento. Nel 1995 viene sostituito da Amedeo Verduzio. Quest’ultimo lascia il posto l’anno successivo a Gianfranco Mazzoni.
Negli Anni successivi Mario Poltronieri ha continuato a collaborare con la televisione in qualità di esperto e ospite fisso: per la stessa RAI e per altri canali televisivi (Eurosport, Odeon TV, Telenova). Nel 1999 ha tentato lacarriera politica nelle liste di Rinnovamento Italiano, movimento guidato da Lamberto Dini, ma senza successo.
“Fare oggi quello che altri faranno domani”. È stata questa in vita la ‘mission’ di Paolo Stanzani (sono parole sue), uno degli ingegneri più innovativi del mondo automobilistico a partire dagli Anni 60, scomparso ieri, 18 gennaio, all’età di 80 anni (era nato a Bologna il 20 luglio 1936). Con lui se ne va un pezzo di storia del Made in Italy e della Lamborghini in particolare, per la quali ha dedicato gli anni migliori della sua vita professionale.
Laureato in ingegneria meccanica nel 1961, viene assunto direttamente da Ferruccio Lamborghini il 30 settembre 1963 con l’intento di affiancarlo all’ingegnere Giampaolo Dallara, allora responsabile tecnico della neonata azienda, in procinto di avviare la produzione della sua prima auto. Ma anche con un secondo fine più cinico: “Voleva avere un sostituto nel caso a Dallara fosse successo qualcosa” amava raccontare.
Sotto la guida di Dallara il giovane ingegnere Stanzani inizia la sua attività rendendo “docile” il carattere del 12 cilindri che Giotto Bizzarrini aveva progettato per la prima Lamborghini, la 350 GT, ritenuto troppo nervoso e non adatto a una guida “normale”. Stanzani studia e modifica bielle, alberi a camme, sistema di lubrificazione, disposizione dei carburatori e partecipa con successo allo sviluppo della vettura. Sarà poi la volta della Miura, con la quale avvia il fortunato sodalizio con Marcello Gandini, responsabile del design della Bertone. Ne nasce una delle più belle vetture della storia dell’auto in assoluto: “L’italiana più sinuosa dopo Sofia Loren”, secondo Ferruccio Lamborghini.
Dalla metà del 1967 sostituisce Dallara alla direzione tecnica e assume l’incarico di Direttore Generale della Lamborghini, un periodo durante il quale nasceranno auto leggendarie come l’Espada, la Jarama, l’Urraco e la Countach. Di quest’ultima Stanzani amava raccontare che era nata per rimediare a un errore di strategia commerciale commesso con la realizzazione della Jarama, ritenuta un po’ troppo “anonima” per la clientela Lamborghini, composta in gran parte da self made man con l’esigenza di differenziarsi.
La Countach non è però solo rivoluzionaria ed estrema nella forma, ma anche innovativa nelle soluzioni meccaniche. “Per migliorare la ripartizione dei pesi e l’assetto ho utilizzato lo schema con motore posteriore centrale posizionato in posizione longitudinale, cambio rivolto verso l’avanti e radiatori collocati nella zona posteriore” sono sempre parole di Stanzani. “La più innovativa però è stata la Urraco, sulla quale abbiamo introdotto numerose soluzioni che all’epoca nessuno aveva ancora adottato, tra le quali il telaio scatolato, il telaietto ancorato al telaio su cui erano fissati cambio e motore per rendere il tutto più facile da montare, le sospensioni McPherson anche al posteriore, il motore otto cilindri con le camere di scoppio ricavate nel pistone e l’assenza del piantone dello sterzo”. La sua preferita era invece l’Espada, per via delle difficoltà che ha dovuto superare quando si è trattato di far convivere comfort e prestazioni, linea bassa e filante e spazio per quattro persone più bagagli.
Al termine del 1974 l’addio alla Lamborghini, sollecitato dalla crisi della Casa e del mercato delle supercar, nonché da considerazioni personali come quella riportata nella biografia scritta da Vittorio Falzoni Gallerani (Paolo Stanzani, genio e sregolatezza. Asi Editore, 2013) in cui Stanzani riflette sul proprio passato sostenendo che “Faccio giocattoli per gente ricca e viziata, la mia attività professionale ha una utilità sociale pari a zero”. Nel 1975 Stanzani abbandona infatti il mondo dell’auto e si dedica alla costruzione di dighe per una società dell’Eni.
Il richiamo dell’auto però è forte e nel 1979 torna al primo amore fondando con alcuni soci la Tecnostile, società di consulenza e studio di tecnologie in campo automobilistico. Nel 1991 è invece tra i protagonisti dell’avventura Bugatti a Campogalliano (Modena), dove nascerà la EB 110. Avventura che non andrà a buon fine,e che Stanzani abbandonerà un anno dopo per dedicarsi alla Formula 1 con la neonata Scuderia Italia. Ma anche qui con poche soddisfazioni. Nel 1994, quando la Scuderia Italia si fonde con la Minardi (formando la Minardi Scuderia Italia) sarà nominato vice presidente, ma deluso dall’ambiente della F1 nel 1995 si ritirerà da quel mondo per fondare con due amici una società di progettazione di impianti nel campo della produzione di energia da fonti rinnovabili.
Il marchio è stato presente per oltre quarant’anni sul mercato, anche se già nel 1909 c’era stata la fusione con la Flag ( Fabbrica Ligure Automobili Genova) e nel 1926 l’acquisto da parte della Fiat. Tutto comincia quando, nel 1906, Matteo Ceirano prende contatti con Michele Ansaldi, un industriale che da pochi mesi si era ritirato dalla società Fiat Ansaldo e che era interessato a mettere insieme esperienza e risorse finanziarie per fondare una nuova casa automobilistica. Il 12 giugno di quell’anno nasce la Società Piemontese Automobili di Ansaldo e Ceirano, più nota nel mondo industriale come Spa. Un capitale di un milione di lire è la base per inserirsi in un iniziale, ma già complicato, settore automotive.
Ansaldi segue la gestione e la programmazione dei metodi produttivi, Ceirano la fase progettuale dei veicoli nella sede di Borgo San Paolo a Torino. Due anni dopo con la fusione con la Flag il capitale aumenta di oltre il quadruplo, arrivando a quattro milioni e mezzo. Lo stabilimento rimane a Torino, la direzione commerciale si sposta a Genova e la denominazione cambia in Società Ligure Piemontese Automobili. L’azienda inizia letteralmente a volare, perché oltre ai successi raggiunti a livello industriale e sportivo, nel 1909 taglia un traguardo davvero originale: inizia la produzione di motori per aerei.
Siamo negli anni che precedono il primo conflitto mondiale, e cominciano gli approvvigionamenti da parte del Ministero della Guerra: molte commesse vengono affidate alla Spa, che produce anche autocarri per i Ministeri dell’Agricoltura, dell’Industria e del Commercio. Lo scoppio della guerra, se segna la fine di alcune imprese che non vogliono riconvertire la produzione, determina invece un momento d’oro per la Spa, che diventa una realtà industriale importante durante gli anni del conflitto.
Quando la guerra finisce invece arriva la crisi finanziaria: la maggioranza azionaria viene rilevata dalla Ansaldo di Genova e dalla Banca Agricola Italiana. Ma nel 1926 è la stessa Ansaldo a essere colpita da un crollo economico, e interviene la Fiat. L’indiscussa regina del settore automobilistico italiano assorbe alcune imprese del gruppo ligure, prima tra tutte la Spa, che finita la seconda guerra mondiale diventa a tutti gli effetti un reparto della Fiat. Cessa anche la produzione di autocarri, l’ultimo sarà prodotto nel 1949.
La Nuova Società Piemontese Automobili, con sede in via Montenero 1 a Susa, in provincia di Torino, ha oggi come obiettivo quello di ripercorrere il lavoro e le intuizioni delle maestranze dei primi del Novecento, realizzando veicoli unici e laboratori d’innovazione e design.
La Bugatti Type 57 SC Atlantic del 1936 è stata premiata con il Best of Show alla quarta edizione dell’Arizona Concours d’Elegance. Novanta vetture hanno preso parte al primo dei grandi appuntamenti con l’eleganza del 2017 riservati alle auto storiche. Tra tutte le contendenti, provenienti dalle collezioni più importanti d’America (e non solo), la giuria a nominato quattro finaliste (oltre alla Bugatti Atlantic anche la Lagonda LG45 Rapide sport tourer del 1937, la Ferrari 250 Europa Coupé Vignale del 1955 e la Marmon V16 convertible coupé del 1933).
Alla fine ha trionfato quella che pressoché unanimemente è considerata la più preziosa auto storica del mondo, l’unica in grado di rivaleggiare (se non di superare per bellezza) con la Ferrari 250 GTO. La Type 57 SC Atlantic ha inoltre vinto la sua classe, riservata a “Cars of Ettore and Jean Bugatti” e animata da otto vetture prodotte dalla Casa franco-italiana.
GLI ALTRI RICONOSCIMENTI La quarta edizione del prestigioso concorso d’eleganza internazionale tenutosi all’Arizona Biltmore resort di Scottsdale ha assegnato i seguenti riconoscimenti di classe e premi speciali:
Antique Automobiles – 1909 Renault AX
Pre-War European Sports/Racing – 1938 Jaguar SS-100
Post-War America-Powered Sports Cars – 1960 Chevrolet Corvette
Post-War American Racing Cars – 1951 Cunningham C2
Post-War European Sports Cars / Early – 1956 Lancia Aurelia B24S convertible
Post-War European Sports Cars / Late – 1960 Ferrari 250 GT PF Cab Series 2
Post-War European Racing Cars – 1955 Ferrari 500 Mondial
American Classic Open – 1933 Marmon V16 convertible coupé
Amercican Classic Closed – 1932 Duesenberg Model J Victoria Coupé
European Classic – 1937 Lagonda LG45 Rapide Sport Tourer
Iconic Post-War American Cars – 1953 Cadillac convertible
Iconic Post-War European Cars – 1949 Delahaye 155M
Preservation Cars – 1959 AC Ace Bristol roadster
Avante Garde – 1931 Nash Model 887 touring sedan
Classic Era Lincolns – 1926 Lincoln LeBaron sedan
Coachwork by Carrozzeria Vignale – 1953 Ferrari 250 Europa coupé
The Cars of Ettore and Jean Bugatti – 1936 Bugatti Type 37 SC Atlantic coupé
Premi speciali:
Most Elegant Pre-War Car – 1931 Duesenberg Model J Tourster
Director’s Choice – 1951 Ferrari 212 MM
Historic Vehicle Association Most Well-Preserved Vehicle – 1949 MG TC
Historic Vehicle Association National Automotive Heritage Award – 1955 Ferrari 500 Mondial
Hagerty Youth Judging Award – 1959 Bocar XP-5
Make-A-Wish Kid’s Choice Award – 1936 Bugatti Type 57SC Atlantic
LA BUGATTI ATLANTIC VINCITRICE E LE 3 SORELLE L’esemplare che ha vinto il Besto of Show è di proprietà di Peter e Merle Mullin e di Robson e Melani Walton. Oggi è gelosamente parte della collezione del Mullin Automotive Museum di Oxnard, California (ma attualmente in prestito al Petersen Automotive Museum di Los Angeles) ed è una di soli due esemplari originali giunti ai giorni nostri (la seconda appartiene alla preziosa raccolta dello stilista Ralph Lauren, vintrice del Best of Show a Pebble Beach nel 1990 e della Coppa d’Oro Villa d’Este all’edizione del 2013 del concorso sulle rive del Lago di Como).
Reca il numero di telaio 57374 e fu costruita nel 1936 per il III° Barone Rothschild. E’ stata a lungo di proprietà di Peter Williamson e, nel 2003, è stata ceduta ai suoi attuali proprietari (che, si racconta, pagarono un cifra astronomica, tra i 30 e i 40 milioni di dollari). E’ la più originale delle Atlantic esistenti.
Le altre Bugatti Atlantic costruite: – TELAIO 57453. Fu prodotta nel 1936 e utilizzata per una brochure ufficiale. Sembra sia appartenuta, successivamente al pilota e agente segreto William Charles Frederick Grover-Williams. Nel 1941 se ne persero le tracce.
– TELAIO 57473. Fu costruita alla fine del ’36 per il suo primo proprietario, Jacques Holzschuch. Successivamente fu ceduta al noto carrozziere parigino Joseph Figoni e, dopo la guerra, a un certo Rene Chatard. Questi, mentre si trovava alla guida della Atlantic con la compagna, fu investito da un treno in corsa. Entrambi gli occupanti persero la vita e il relitto fu confiscato dalla polizia francese. Nel ’65 un appassionato acquistò i rottami e iniziò una lunga e meticolosa ricostruzione, che si concluse nel 1977.
– TELAIO 57591. E’ l’esemplare appartenente a Ralph Lauren. Fu inizialmente costruita per un cliente britannico. Lo stilista americano la acquistò in epoca recente e la sottopose a un radicale restauro dopo aver subito, negli anni, numerose trasformazioni e migliorie.
La Bugatti Atlantic, il cui stile si deve a Jean Bugatti, primogenito di Ettore, è equipaggiata con un motore 8 cilindri in linea da 3,3 litri con compressore volumetrico Roots; fornisce una potenza di circa 210 Cv e può superare 200 km/h di punta massima. I pochi fortunati che hanno potuto mettersi al volante di una Atlantic raccontano che le sue qualità dinamiche sono diametralmente opposte al suo stile unico e affascinante: pessima visibilità, motore “complesso” e un caldo infernale causato dalla scarsa capacità di ventilazione in abitacolo.
ARIZONA CONCOURSE D’ELEGANCE 2018 La quinta edizione dell’Arizona Concours d’Elegance è già in programma per il 14 gennaio 2018 sotto il sole dell’Arizona.
Alvise-Marco Seno
Arizona Concourse d'Elegance 2017: tutte le vincitrici
Fa una certa impressione ritrovarsi a superare il Passo Sella nel cuore di una notte di gennaio, tra prati brulli e sporadiche chiazze di neve ghiacciata, mentre tutt’intorno i cannoni illuminano le piste e sparano la neve artificiale. Tutto questo proprio mentre nelle stesse ore, dall’altro capo dell’Italia, in Abruzzo, si lotta contro le drammatiche conseguenze delle pesanti nevicate. Follie di un clima che toglie ogni certezza.
Anche senza neve, però, è sempre una certezza la Winter Marathon, la classica invernale che con la sua formula del “tutto in una notte” ha portato anche quest’anno oltre un centinaio di equipaggi in una cavalcata di 440 chilometri e 12 ore lungo le strade più belle delle Dolomiti, con partenza e rientro a Madonna di Campiglio. Un percorso che ha visto qualche modifica rispetto alle edizioni passate, ma che, con i suoi nove passi da scavalcare in sequenza, resta bellissimo. E provante, per i piloti e per le auto: sono state una quindicina quelle che non sono riuscite a terminare la gara.
Percorso provante Nonostante le strade asciutte e le temperature non così rigide come in certe epiche edizioni passate (-8° la minima registrata), la Winter Marathon si è confermata una competizione davvero impegnativa: le 51 prove hanno tenuto sempre alto il ritmo degli equipaggi, l’andatura imposta dalla tabella di marcia non ammetteva indugi e non lasciava margini in caso di intoppi. E il buio, calato poche ore dopo la partenza, avvenuta alle 14 in punto, ha reso tutto ancora più complicato. Ma in fondo, è proprio per questo che piace, la Winter, alla quale i top driver accorrono sempre in massa: erano un quarto dei partecipanti, quest’anno.
Al via c’era anche una vera gloria come Miki Biasion, due volte campione del mondo Rally, che si è divertito a cimentarsi con la regolarità su una Lancia Fulvia Coupé S 1300 Safari del 1976, in coppia con Laura Ciarallo. Il livello del parterre si è rispecchiato nella regia delle prove, molto tecniche, con passaggi brevissimi alternati a tratti lunghi, con traguardi spesso in curva e le fotocellule di rilevamento dei tempi che si scorgevano solo all’ultimo momento, per sfidare le doti dei regolaristi più esperti. E con le ultime crono da affrontare alla fine della gara, quando la stanchezza di tante ore al volante si fa sentire.
Arrivare in fondo a una gara così è già un buon risultato, come accaduto a noi di Ruoteclassiche, con la nostra Volvo P121 del 1968 della Scuderia Volvo Italia (ve la racconteremo sul numero di febbraio).
Chi l’ha spuntata E a conferma del carattere duro della Winter Marathon, anche tra i big non sono mancate le difficoltà: un mostro sacro come Giuliano Canè, in coppia con Lorenzo Rossi, con la sua Lancia Aprilia del 1938 si è dovuto accontentare del decimo posto, a causa di una serie di errori. Anche Nino Margiotta, regolarista siciliano con palmarés di rilievo, navigato da Bruno Perno su Volvo P120 del 1958, si è fermato all’ottavo posto, mentre Franco Spagnoli e Giuseppe Parisi, vincitori della scorsa edizione, con la loro Fiat 520 Torpedo del 1928 (che pure godeva del vantaggio del 7% sulle penalità riservato agli equipaggi eroici che disputano la gara su vetture aperte), non sono andati oltre il quinto posto.
Ad avere la meglio su tutti sono stati Alberto Aliverti e Alberto Maffi su Fiat 508 C del 1937, che hanno condotto una gara impeccabile, senza nemmeno montare gomme chiodate, che pure su certi tornanti ghiacciati garantivano una tenuta maggiore e dunque una marcia più fluida. Secondi, Andrea Belometti ed Emanuele Peli su Fiat Siata 508 S del 1932, davanti a Luca Patron e Massimo Casale su Bentley 3 Litre del 1925, vettura davvero impegnativa da guidare in alta montagna, al gelo. Prime tra gli equipaggi femminili si sono classificate Gabriella Scarioni e Ornella Pietropaolo su Porsche 356 B Coupé del 1960.
L’epilogo al laghetto Ma la Winter Marathon non finisce con il traguardo tagliato a tarda notte (gli ultimi equipaggi sono ritornati a Madonna di Campiglio intorno alle 3.30 del mattino). Il sabato pomeriggio, infatti, sul laghetto ghiacciato della località trentina sono andate in scena due appassionanti sfide a eliminazione diretta: il Trofeo Ma-Fra, riservato alle vetture anteguerra, e il Trofeo Eberhard, al quale accedevano i primi 32 equipaggi classificati alla competizione notturna.
Ad aggiudicarsi il primo sono stati Francesco e Giuseppe Di Pietra, con la loro Fiat 508 C del 1938, che si sono consolati così di una prestazione non brillante in gara. A vincere il Trofeo Eberhard, invece, dopo una lotta sul filo dei centesimi di secondo, sono stati Belometti-Peli con la loro Fiat Siata, davanti a Guido Barcella e Ombretta Ghidotti su Porsche 356 C Coupé del 1963 e a Spagnoli-Parisi su Fiat 520 Torpedo. A tutti e tre gli equipaggi è andato un cronografo della Eberhard & Co.
Sempre il laghetto era stato teatro, il giovedì sera, del prologo della gara, il Trofeo Apt riservato ai primi 32 equipaggi iscritti alla manifestazione: ad aggiudicarselo sono stati Alessandro e Francesca Molgora su Triumph TR2 del 1954.
Le classifiche
Assoluta 1° Aliverti-Maffi Fiat 508 C 1937 #6
2° Belometti-Peli Fiat Siata 508 S 1932 #3
3° Paron-Casale Bentley 3 Litre 1925 #2
Equipaggi femminili 1° Scarioni-Pietropaolo Porsche 356 B Coupé 1960 #26
Trofeo Ma-Fra 1° Di Pietra-Di Pietra Fiat 508 C 1938 #8
2° Belometti-Peli Fiat Siata 508 S 1932 #3
3° Battagliola-Branca Fiat 508 S Balilla 1936 #4
Trofeo Eberhard 1° Belometti-Peli Fiat Siata 508 S 1932 #3
2° Barcella-Ghidotti Porsche 356 C Coupé 1963 #17
3° Spagnoli-Parisi Fiat 520 Torpedo 1928 #1
Trofeo Apt 1° Molgora-Molgora Triumph TR2 1954 #37
2° Turelli-Turelli Lancia Aprilia 1937
3° Battagliola-Branca Fiat 508 S Balilla Sport 1936
Entrare nell’abitacolo della ZX Rallye Raid del 1990, ascoltare il rumore unico della 2 CV originale del 1948, o riscoprire il prototipo della piccola C10 del 1956. O ancora, riscoprire tutto ciò che c’è da sapere sulla mitica Type A del 1919, l’auto da cui ha preso il via l’avventura della Citroën. Il tutto a portata di click.
La Casa francese infatti ha lanciato Citroën Origins, nuovo sito web ottimizzato per computer, tablet e smartphone e dedicato al proprio patrimonio, che offre un’inedita esperienza attraverso suoi modelli più famosi: visualizzazioni a 360°, suoni specifici (dal motore al clacson, fino alle frecce o alle sospensioni), volantini d’epoca, aneddoti e molto altro. Dalla Type A alla Traction Avant, dalla 2 CV alla Ami 6, dalla GS alla XM, dalla Xsara Picasso alla Nuova C3: Citroën Origins è un vero e proprio museo virtuale per scoprire, o riscoprire, le storiche Citroën dal 1919 a oggi.
Un’esperienza possibile grazie allo show-room virtuale: ogni modello può essere visualizzato a 360°, sia per gli interni, sia per l’esterno. Completano l’excursus storico anche estratti di brochure, foto e video, aneddoti e schede tecniche. Un lavoro davvero notevole e utilissimo per approfondire la (ri)scoperta di ogni modello. Al momento sul portale sono disponibili 49 Citroën: un numero che è destinato ad aumentare nelle prossime settimane. E, più in generale, un esempio da prendere a modello per le altre Case, affinché possano valorizzare anche online il proprio patrimonio storico.
Pensi alla targa Florio e vengono in mente le regine d’epoca su quattro ruote, i ricordi di epiche imprese sportive negli anni nei quali era una gara competitiva. Pochi associano lo scenografico percorso che si snoda nelle Madonie alle moto. Eppure c’è stata un’epoca, tra gli anni 20 e 40 del secolo scorso, nella quale anche i mezzi a due ruote gareggiavano sulle strette e polverose strade della Sicilia.
Allora per le Case la Targa Florio motociclistica era una vetrina formidabile per i propri prodotti. Undici edizioni che richiamarono marchi già famosi come Harley-Davidson, Indian, Frera, Moto Guzzi e BMW. Poi il crollo finanziario della famiglia Florio indusse il promotore della Targa a rinunciare alle moto. Che corsero dal 1920 al 1929 sulle Madonie, per poi riapparire fugacemente nel 1940, con arrivo allo stadio La Favorita di Palermo.
Adesso, 77 dopo l’ultima edizione disputata nel 1940 e vinta da Massimo Masserini, il prossimo 4 e 5 novembre il celebre circuito delle Madonie tornerà ad ospitare la Targa Florio motociclistica. Merito dell’accordo fra Angelo Pizzuto, presidente dell’Automobile Club Palermo, e l’ex pilota e dakariano Ciro De Petri.
L’edizione 2017 avrà quattro categorie di moto ammesse: moto historic (si tratta di moto iscritte su invito degli organizzatori, tra le quali anche ex moto da gara); motoclassic (stradali/scooter iscritte da oltre 30 anni al registro storico FMI); moto moderne ed electric-bike.
La gara si articolerà in diverse specialità: le moto historic correranno in un tratto chiuso al traffico a ridosso di Floriopoli; le electric-bike percorreranno i 62 km del piccolo circuito delle Madonie; le stradali/scooterclassic che faranno un giro del medio circuito; le moto moderne infine correranno sul percorso di 208 km, teatro delle precedenti edizioni motociclistiche degli anni 20.
Ha chiuso nel segno dell’ottimismo la prima mostra scambio dell’anno, con un successo di pubblico che lascia ben sperare per le manifestazioni in programma nei prossimi mesi. La diciannovesima edizione di Arezzo Classic Motors del 14 e 15 Gennaio 2017 ha registrato un’affluenza di oltre 13.000 persone e un incremento sostanzioso del numero di espositori, passati da 250 circa dello scorso anno ad oltre 300, tra cui club, scuderie e registri storici.
In totale sono stati occupati sei padiglioni di Arezzo Fiere e Congressi per una superficie espositiva di oltre 20.000 i metri quadrati dove oltre alle auto e alle moto d’epoca sono stati ospitati trattori, autobus e camion. Se il buongiorno si vede dal mattino… anche il 2017 si preannuncia quindi come un anno intenso per gli appassionati di auto e moto storiche.
Arezzo Classic Motors ha fatto anche scuola. Nella giornata di sabato sono stati accolti oltre 700 studenti di Istituti Tecnici Superiori che frequentano corsi per meccanici e che studiano motori elettrici e veicoli a motore. Molto gettonata anche l’esposizione delle vetture Prototipi e Formula 3, 850 e Italia degli anni 70 e 80 presentato dalla prima scuderia automobilistica nata ad Arezzo: il Chimera Classic Motor Club.
Ad Arezzo, inoltre, è sempre stato alto l’interesse per il mondo del Rally anni 70 e 80, grazie alla passione di Piero Comanducci, famoso cineamatore di Rally scomparso nel 2015, che quest’anno è stato ricordato con la proiezione di un film realizzato con numerosi dei suoi preziosi documenti video.
Presente ad Arezzo Classic Motors anche il Registro Fiat Italiano che ha esposto le proprie vetture prodotte negli anni 50 e diversi Club (tra i quali Volterra, Brilli Peri, Cassia Corse, Mini Owners, Vespa Club) che con la loro partecipazione e con l’esibizione dei propri veicoli, hanno elevato il livello qualitativo della manifestazione.